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domenica, 22 Giugno,2025

La criminalizzazione della povertà in Italia: tra esclusione sociale e repressione istituzionale

Criminalizzazione povertà: quando essere poveri diventa un crimine invisibile

La povertà non è un crimine. Eppure, nella società italiana contemporanea, essere poveri significa spesso essere sorvegliati, multati, sgomberati, stigmatizzati. La criminalizzazione della povertà è un processo che, pur senza una legge esplicita, si manifesta ogni giorno nei centri urbani, nei quartieri periferici, nelle stazioni, nei dormitori, attraverso ordinanze, leggi e comportamenti che trasformano la condizione di disagio in una colpa.

Politiche securitarie e ordinanze anti-degrado: chi colpiscono davvero?

Negli ultimi vent’anni, il concetto di “decoro urbano” è diventato centrale in molte politiche municipali. Dietro la retorica della sicurezza e del decoro si nascondono strumenti repressivi che colpiscono chi vive per strada. Ordinanze comunali vietano di dormire sulle panchine, di lavarsi nelle fontane pubbliche, di chiedere l’elemosina. I poveri diventano fastidiosi, visibili, e quindi da nascondere.

A Milano, Roma, Torino, Bologna – per citare solo alcune città – gli sgomberi delle occupazioni abitative e dei dormitori improvvisati sono ormai sistematici. In nome della legalità e del decoro, interi nuclei familiari vengono buttati in strada, senza alternative reali. Il problema non è risolto: viene solo spostato.

La povertà come emergenza, non come sistema

La narrazione prevalente dipinge la povertà come un fenomeno improvviso, temporaneo, gestibile con aiuti una tantum. In realtà, in Italia la povertà è un sistema, strutturale, radicato in decenni di disuguaglianze, di mancati investimenti in welfare, casa pubblica, salute mentale, lavoro dignitoso.

Secondo l’ISTAT, nel 2024 oltre 5,6 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta. Di queste, circa 1,4 milioni sono bambini. Il Sud e le grandi città concentrano i tassi più alti. Eppure, invece che intervenire sulle cause, si agisce sui sintomi: si sgomberano, si multano, si reprimono.

Leggi e decreti: come lo Stato partecipa alla repressione

Non serve una legge che dica “essere poveri è illegale”: bastano norme e dispositivi che nei fatti puniscono la condizione di marginalità. Pensiamo al Decreto Minniti-Orlando del 2017, che ha introdotto il Daspo urbano: un divieto di accesso per “motivi di sicurezza” a determinate aree pubbliche. Apparentemente rivolto a chi disturba l’ordine, nella pratica è stato applicato a senzatetto, lavavetri, venditori ambulanti.

Anche il nuovo Codice della Strada ha rafforzato sanzioni contro chi chiede l’elemosina vicino ai semafori. E nei treni regionali Trenitalia, ai passeggeri che non hanno il biglietto viene elevata una multa fino a 200 euro – somma irraggiungibile per chi non ha reddito.

Povertà, razzismo e discriminazione intersezionale

Non tutte le povertà sono trattate allo stesso modo. Esiste una forte dimensione razziale e di genere nella criminalizzazione della povertà. I migranti, soprattutto se neri, arabi o rom, sono più facilmente sospettati, fermati, denunciati. Le donne povere sono spesso invisibili e soggette a doppia violenza: quella istituzionale e quella domestica.

Molti degli sgomberi forzati riguardano comunità rom, che vivono da decenni in Italia ma non riescono ad accedere a case popolari. Senza documenti, senza residenza, senza accesso ai servizi: un circolo vizioso che trasforma la povertà in una trappola burocratica.

La repressione come risposta alla fragilità

Laddove mancano politiche di inclusione, lo Stato agisce con la forza. I dormitori vengono chiusi con l’arrivo della primavera; i centri di accoglienza sono pieni e malfunzionanti. Le mense per i poveri ricevono meno fondi. La pandemia ha peggiorato tutto: chi prima viveva di piccoli lavori informali ha perso ogni forma di reddito. Eppure, il Reddito di Cittadinanza è stato smantellato proprio in questo momento.

Il messaggio implicito è chiaro: chi è povero è colpevole. Un fallito. Un peso. Non un cittadino, ma un problema.

Alternative possibili: diritti, non punizioni

Ci sono realtà che agiscono in direzione opposta. Progetti come “Nonna Roma”, “Baobab Experience”, “Binario 95” a Roma offrono supporto concreto, senza giudizio, senza esclusione. Anche alcune amministrazioni comunali stanno sperimentando approcci più inclusivi, come il reddito di dignità, il mutuo sociale, o progetti di coabitazione solidale.

Tuttavia, sono ancora casi isolati. Servirebbe una strategia nazionale per contrastare la povertà in modo strutturale, garantendo accesso alla casa, alla salute, al lavoro e al reddito di base.

Il ruolo dell’opinione pubblica e dei media

I media giocano un ruolo cruciale nel costruire l’immaginario collettivo sulla povertà. Troppo spesso, le persone senza fissa dimora vengono raccontate in modo pietistico o criminalizzante. Le immagini mostrano individui sporchi, accampati, come a giustificare l’intervento repressivo.

Pochi si chiedono perché si trovino lì. Pochi parlano del fatto che molti senzatetto hanno un lavoro, ma non guadagnano abbastanza per permettersi un affitto. L’informazione deve cambiare rotta: servono storie vere, che raccontino dignità, resistenza, umanità.

La Costituzione tradita

L’articolo 3 della Costituzione italiana dice chiaramente che spetta alla Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. Eppure, nella realtà quotidiana, questi ostacoli vengono ignorati o rafforzati.

Essere poveri non dovrebbe significare perdere i diritti civili. Non dovrebbe significare essere invisibili, o peggio ancora, perseguitati.

Una società giusta non punisce i poveri

Criminalizzare la povertà significa rinunciare all’idea stessa di giustizia sociale. Una società giusta protegge chi è in difficoltà. Investe nella prevenzione, non nella repressione. Costruisce ponti, non muri.

Occorre cambiare paradigma: dal controllo alla cura, dalla punizione alla solidarietà, dall’emarginazione all’inclusione. La povertà non è un reato. È una ferita collettiva, che può guarire solo se la si affronta insieme.

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