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domenica, 22 Giugno,2025

Accoglienza migranti Italia: la selezione invisibile che decide chi resta

Accoglienza migranti Italia: storie e analisi di una selezione che esclude

In Italia non si parla più tanto di accoglienza, quanto di chi merita di essere accolto.
Il dibattito pubblico, le leggi, le procedure, i decreti e persino il linguaggio mediatico hanno lentamente trasformato l’atto di accogliere in una selezione. In un filtro. In un meccanismo che distingue i “buoni” dai “cattivi”, i “veri profughi” dai “finti migranti”, chi può restare da chi deve sparire. E così, l’accoglienza migranti in Italia non è più un diritto garantito, ma un percorso ad ostacoli che pochi riescono a superare.

Per capire davvero cosa significa oggi “accoglienza” in Italia, bisogna guardare oltre i comunicati istituzionali, oltre le dichiarazioni televisive, oltre i numeri da conferenza stampa.
Bisogna entrare nei centri, ascoltare le storie, analizzare le procedure, parlare con chi subisce il sistema e con chi ci lavora dentro. Solo allora si coglie la vera natura dell’accoglienza italiana: profondamente diseguale, arbitraria, selettiva.

Nella retorica politica, soprattutto negli ultimi dieci anni, l’accoglienza è stata dipinta come un lusso.
“Non possiamo accogliere tutti”, “prima gli italiani”, “accogliamo chi scappa davvero dalla guerra”.
Frasi fatte, slogan ripetuti ossessivamente, che hanno avuto un impatto profondo nella percezione collettiva.
E così la cittadinanza ha interiorizzato un’idea: che accogliere sia pericoloso, che i migranti siano un problema da gestire, e che la solidarietà abbia bisogno di un permesso.

Ma questa retorica ha avuto anche un effetto pratico devastante: ha giustificato leggi sempre più restrittive, tagli ai fondi, chiusura di centri, abbandono dei territori. Ha spinto verso un modello di accoglienza emergenziale, fondato sull’eccezionalità, che anziché promuovere l’integrazione, la impedisce.

Uno dei passaggi più emblematici di questa deriva è stato il progressivo smantellamento del sistema SPRAR (oggi SAI), il modello di accoglienza diffusa che prevedeva piccoli numeri, inserimento nei comuni, mediazione culturale, percorsi di inclusione personalizzati.
Questo sistema, riconosciuto come buona pratica anche a livello europeo, è stato negli anni ridotto ai minimi termini, sostituito dai grandi centri CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), dove spesso le persone vivono per mesi o anni senza reali possibilità di uscire da una condizione di marginalità.

Ma l’accoglienza selettiva non è solo nelle strutture: è nel modo in cui vengono gestiti i diritti.
I richiedenti asilo, in teoria, dovrebbero ricevere risposta entro pochi mesi. In realtà, aspettano anche due anni.
Nel frattempo, non possono lavorare, non possono spostarsi, non possono decidere nulla della propria vita.
Vivono sospesi, invisibili, sorvegliati e dimenticati.

E la selezione si fa spietata quando arriva il momento della commissione territoriale: un’intervista spesso condotta con freddezza, rigidità e sospetto. Ogni dettaglio che non combacia, ogni incertezza nella cronologia, ogni dimenticanza diventa motivo di rifiuto.
Anche chi ha subito torture, guerre, persecuzioni, se non è in grado di raccontarle “bene”, viene considerato inattendibile.
La parola del migrante viene continuamente messa in discussione, come se l’orrore che ha vissuto dovesse essere anche narrato con precisione chirurgica per essere considerato vero.

Il racconto di Blessing, nigeriana, è emblematico. È fuggita dalla tratta in Libia, è stata venduta, picchiata, violentata. È arrivata in Italia a piedi, passando dalla Sicilia. Durante la commissione, ha confuso l’anno in cui è stata arrestata. La sua richiesta d’asilo è stata respinta per “incoerenze”.
Blessing ora vive in un dormitorio occupato a Roma. Non ha documenti, non può lavorare, non può tornare indietro. Per l’Italia non esiste.

La storia di Aymen, tunisino, è diversa. È arrivato con un barchino in Calabria. Ha raccontato che non riusciva più a sopravvivere nella sua città, dove le bande criminali e la disoccupazione avevano distrutto ogni speranza. “Motivo economico”, ha detto la commissione. Richiesta respinta. Espulsione firmata. Ma in Tunisia, Aymen rischia la prigione per essersi rifiutato di pagare il pizzo.

Nel frattempo, altri migranti vengono invece “premiati”. Perché hanno vinto una borsa di studio. Perché parlano bene l’italiano. Perché sono stati adottati da una famiglia italiana.
Non è un’accoglienza basata sui diritti, ma una selezione basata sul gradimento. Si accoglie chi è utile, chi si adatta, chi non crea problemi. Chi si espone poco. Chi è riconoscibile come “buon immigrato”.

Eppure, la maggioranza delle persone che arrivano in Italia cerca solo protezione, sicurezza, un’opportunità.
Molti hanno alle spalle storie che i giornali non raccontano: persecuzioni per orientamento sessuale, religione, attivismo politico. Molti sono fuggiti da guerre invisibili, da regimi corrotti, da violenze familiari impunite.
E molti vengono respinti in base alla loro nazionalità.
Non alla loro storia.

L’Italia, come altri Paesi europei, applica una geografia dell’accoglienza, non basata su criteri umanitari ma su interessi diplomatici ed economici.
Un rifugiato ucraino viene accolto con urgenza, con procedure rapide, permessi temporanei, accesso alla sanità e all’alloggio. Un rifugiato eritreo o sudanese, invece, viene trattato con sospetto, come potenziale clandestino, pur arrivando da zone di guerra o da regimi notoriamente violenti.

Questa doppia morale rende l’accoglienza una questione di pelle, passaporto e propaganda.
Non è un caso che i migranti subsahariani abbiano molte più difficoltà ad ottenere lo status di rifugiato rispetto ai migranti provenienti da altri contesti.
Il messaggio è implicito, ma fortissimo: “Dipende da chi sei. Da dove vieni. E da quanto possiamo permetterci di accoglierti.”

Anche i numeri raccontano questa selezione.
Ogni anno migliaia di richieste d’asilo vengono respinte, anche se i richiedenti arrivano da Paesi in conflitto o ad alto rischio.
Le commissioni lavorano sotto pressione, con criteri spesso poco trasparenti.
E il risultato è una massa crescente di persone senza documenti, senza tutele, fuori da ogni percorso.

Questi “non accolti” finiscono nei CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio): strutture opache, con standard minimi, in cui si può essere rinchiusi fino a 18 mesi senza aver commesso alcun reato, solo per non avere i documenti “giusti”.
Dentro si vive in condizioni disumane, senza contatti con l’esterno, senza percorsi di integrazione.
I CPR sono il lato oscuro dell’accoglienza: non centri di aiuto, ma di detenzione amministrativa, dove la persona non conta, e il suo diritto è sospeso.

Nel frattempo, le frontiere esterne dell’Italia vengono esternalizzate: si paga la Libia per “trattenere” i migranti nei campi. Si stringono accordi con la Tunisia, con l’Albania, con la Turchia.
Ogni euro speso per impedire lo sbarco è un euro tolto all’integrazione.
Si accoglie meno, si respinge di più, si silenzia tutto.

In questo contesto buio, però, ci sono luci.
Ci sono Comuni che scelgono di accogliere anche oltre le quote.
Ci sono volontari che aprono sportelli di orientamento legale nei centri più dimenticati.
Ci sono famiglie che decidono di ospitare migranti anche senza incentivi, per senso di giustizia.
Ci sono insegnanti che fanno lezione anche fuori orario, per aiutare chi è rimasto indietro.
Ci sono reti spontanee che portano cibo, vestiti, ascolto.
Ci sono sindaci che disobbediscono.
Ci sono medici che curano anche chi non ha tessera sanitaria.
Ci sono italiani che non si riconoscono in questa accoglienza selettiva, e la sfidano ogni giorno con piccoli gesti concreti.

Le esperienze di accoglienza dal basso – come i progetti solidali in Calabria, Sicilia, Piemonte – dimostrano che un altro modello è possibile: uno basato sull’umanità, non sul controllo.
Uno che non divide tra chi vale e chi no, tra chi può e chi non può.
Uno che parte dalla domanda più semplice e più rivoluzionaria: “Se fossi io al suo posto?”


Cambiare l’accoglienza migranti in Italia non è solo una questione di umanità. È una questione di giustizia, di coerenza costituzionale, di visione del futuro.
Perché nessuna società può dirsi veramente libera se seleziona chi può entrarci solo in base all’utilità o al silenzio.
Perché ogni persona che respingiamo oggi, è una ferita alla nostra democrazia domani.

La Costituzione italiana parla chiaro: tutti hanno pari dignità sociale, indipendentemente da razza, religione, provenienza.
Ma questa dignità non può essere condizionata da un algoritmo di selezione, da una commissione stanca, da una propaganda elettorale.
Deve essere garantita. Sempre.


📢 L’Italia ha bisogno di un nuovo paradigma.
Non più accoglienza come emergenza, ma accoglienza come responsabilità permanente.
Non più decreti-urgenza, ma politiche strutturate.
Non più ostacoli burocratici, ma diritti chiari e accessibili.
Non più selezione, ma inclusione piena e senza condizioni.

Finché continueremo a distinguere tra chi può essere accolto e chi no sulla base del colore della pelle, della lingua, della nazionalità, continueremo a riprodurre razzismo istituzionalizzato sotto forma di burocrazia.

Accogliere significa credere nell’uguaglianza.
E oggi, in Italia, l’uguaglianza ha bisogno di essere difesa.
Non solo nei tribunali, ma nelle scelte quotidiane, nelle parole che usiamo, nei porti che apriamo, nelle persone che ascoltiamo.

Perché l’accoglienza vera non è selezione. È giustizia.

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