Razzismo sistemico in Italia – Il volto nascosto della disuguaglianza
Il razzismo non è solo una parola detta male. Non è solo un insulto, un gesto, una violenza. C’è un razzismo che non si vede, ma si sente. Non colpisce con un pugno, ma con una firma. Non urla, ma silenziosamente esclude. È il razzismo sistemico. E in Italia esiste, eccome se esiste. Solo che preferiamo non vederlo.
Non è comodo ammettere che lo Stato, le istituzioni, la scuola, la sanità, il mondo del lavoro, e perfino i mezzi d’informazione, a volte funzionano come ingranaggi perfetti di esclusione. Non è un complotto. È un’abitudine. Una normalità tossica che penalizza chi ha la pelle più scura, un nome straniero, un accento diverso.
Lo incontri a scuola. Dove i bambini stranieri, nati in Italia, cresciuti qui, parlano perfettamente l’italiano, ma vengono comunque trattati come ospiti temporanei. Vengono messi nei banchi in fondo, ricevono meno attenzione, vengono ignorati nei progetti extrascolastici. Gli insegnanti – anche quelli in buona fede – si sorprendono se un ragazzino romeno è il primo della classe, se una bambina senegalese è appassionata di Dante, se un ragazzo egiziano vuole fare il medico.
Il pregiudizio è così incorporato che spesso nemmeno se ne accorgono. Ma i ragazzi sì. Loro se ne accorgono eccome. Se ne accorgono quando i compagni li imitano con l’accento maccheronico. Quando i professori dicono che “a casa loro non studiano”. Quando nei libri di testo la diversità è raccontata solo come “problema da gestire”.
Il razzismo sistemico in Italia è evidente anche nel mondo del lavoro. Curriculum scartati appena si legge il nome. Colloqui che finiscono in 3 minuti. Posizioni da “capo” che non vengono mai offerte ai lavoratori stranieri, anche se hanno esperienza. Persone relegate a ruoli marginali, sottopagate, precarie. Se poi protestano, vengono accusate di essere ingrati.
Le donne nere o arabe, in particolare, sono praticamente invisibili nei ruoli apicali. Anche quando sono laureate, competenti, motivate. Il sistema le considera una presenza temporanea, utile solo finché serve. Appena si parla di carriera, spariscono.
Il razzismo sistemico vive anche negli ospedali. Non perché i medici siano razzisti. Ma perché l’intero impianto sanitario è pensato per un paziente “bianco”, italiano, senza barriere linguistiche. I pazienti migranti spesso non capiscono le procedure, non vengono ascoltati, vengono trattati con sospetto.
Ci sono donne che evitano i controlli ginecologici per paura del giudizio. Ci sono uomini che non denunciano il dolore per non passare da deboli. Ci sono genitori che non riescono a capire la diagnosi del figlio, ma nessuno si ferma a spiegare. La sanità pubblica dovrebbe includere, ma spesso esclude per ignoranza strutturale.
Anche la giustizia non è immune. Il nome che porti, il colore della pelle, il quartiere in cui vivi possono influenzare un processo. Le sentenze non sono sempre imparziali. I controlli delle forze dell’ordine spesso si concentrano nei quartieri “etnici”. I cittadini stranieri vengono percepiti come colpevoli prima ancora di essere indagati.
Chi lavora nel sociale sa che un italiano incensurato ha più possibilità di evitare la custodia cautelare rispetto a uno straniero, anche se nella stessa condizione. I minori stranieri non accompagnati finiscono più facilmente in comunità restrittive. E gli avvocati che difendono migranti devono lottare non solo contro l’accusa, ma anche contro il sistema.
Il razzismo sistemico in Italia si manifesta anche nella burocrazia. Le lungaggini nei permessi di soggiorno, le barriere linguistiche nei moduli, le norme confuse che cambiano ogni anno. Tutto è progettato per scoraggiare, per stancare, per far sentire chi non è italiano come un problema da risolvere.
Anche per chi è nato qui, la cittadinanza è un percorso a ostacoli. Lo ius soli è ancora un miraggio. I giovani di seconda generazione crescono italiani, ma vengono considerati “ospiti”. Possono lavorare, pagare le tasse, fare volontariato. Ma per lo Stato, sono stranieri.
E poi ci sono i media. Quante volte vediamo un immigrato citato solo quando c’è un fatto di cronaca nera? Quanti titoli sensazionalistici su “baby gang” africane, su “emergenza rom”, su “minaccia islamica”? Raramente si raccontano storie positive, modelli virtuosi, contributi reali.
L’informazione tende a dipingere la diversità come pericolo. Le immagini scelte sono sempre drammatiche, i titoli allarmistici, i commenti pieni di allusioni. Quando si parla di razzismo sistemico, i media tacciono. Ma quando una persona straniera sbaglia, allora diventa un simbolo di fallimento collettivo.
Eppure, la resistenza esiste. In ogni scuola c’è un insegnante che si ribella. In ogni ospedale c’è un operatore che si ferma a spiegare. In ogni quartiere c’è un’associazione che supporta. Esistono avvocati, medici, attivisti, giornalisti, scrittori che denunciano il razzismo sistemico con coraggio.
Ci sono anche giovani di seconda generazione che hanno trovato la propria voce. Scrivono, parlano, si candidano, partecipano. Non si accontentano di essere accettati: vogliono essere riconosciuti. Come parte integrante di questo Paese. E stanno cambiando la narrazione.
Parlare di razzismo sistemico in Italia non è un’accusa. È una constatazione. E anche un atto di responsabilità. Solo riconoscendo questi meccanismi possiamo iniziare a cambiarli. Non bastano le campagne pubblicitarie. Non bastano i messaggi di tolleranza. Serve una riforma culturale, ma anche amministrativa, normativa, istituzionale.
Serve che chi ha potere lo usi per includere, non per confermare i privilegi esistenti. Serve che chi lavora nelle strutture pubbliche impari a riconoscere il proprio bias, anche quando è inconsapevole. Serve che la politica ascolti chi subisce, invece di parlare sopra.
Il razzismo sistemico in Italia è reale. Non è un errore isolato, non è un malinteso. È una struttura che si autoalimenta. Ma come tutte le strutture, può essere smantellata. Con coraggio, con visione, con giustizia.
E con la voce di chi ha deciso che restare in silenzio non è più un’opzione.