Razzismo pronto soccorso – Le discriminazioni che nessuno racconta
C’è un momento, dentro ogni pronto soccorso, in cui tutto si ferma. È quell’attimo prima che il paziente venga chiamato, quando la scheda è già in mano all’infermiere del triage e il nome viene letto a bassa voce. Spesso non è solo il nome a parlare. È l’accento, è il cognome, è il colore della pelle. E lo capisci da come si muovono gli sguardi.
Non c’è bisogno di parole per sapere che qualcuno sta venendo valutato con un filtro in più. Non medico, non clinico. Ma culturale. Sociale. A volte, semplicemente pregiudiziale.
Ho visto pazienti africani aspettare ore intere con dolori acuti, mentre altri, bianchi, con la stessa sintomatologia, venivano valutati prima. Ho visto donne con il velo trattate con sospetto, come se dovessero nascondere qualcosa dietro quella stoffa. Ho visto sguardi che giudicano prima ancora di chiedere cosa ti fa male.
E non è che chi lavora in sanità sia razzista in blocco. Tutt’altro. Ma il razzismo nei pronto soccorso non è urlato. È silenzioso. È sistemico. Vive nei non detti, nei piccoli gesti, nei sorrisi che mancano, nei toni bruschi usati solo con alcuni.
C’è un modo diverso di chiamare. Un tono meno umano. Una distanza che non si colma nemmeno con la traduzione. Una barriera invisibile che non è fatta solo di lingua, ma di percezione.
Lo senti quando qualcuno dice “ecco, un altro”, oppure “questi qua vengono solo per scroccare”, o ancora “ma dai, questo l’ha già fatto ieri”. Lo senti e capisci che l’uguaglianza nei diritti sanitari è scritta nei protocolli, ma non sempre vissuta nella realtà.
E se provi a far notare certe cose, spesso ti senti dire: “Ma no dai, non è razzismo. È che non si fanno capire. È che sono troppi. È che…”
Sempre una giustificazione. Mai una vera riflessione.
E poi ci sono le urgenze. Quelle vere, quelle gravi. E lì, sì, si corre per tutti. Ma è tutto il resto che fa la differenza. È la cura con cui spieghi una terapia. È il modo in cui parli con i familiari. È se ascolti davvero o no.
Ci sono giorni in cui il pronto soccorso sembra il mondo intero chiuso in poche stanze. Lingue diverse, gesti diversi, paure che si somigliano. Eppure, quello che dovrebbe essere il luogo più neutro di tutti — la sanità — spesso diventa uno dei più carichi di differenze. Non per scelta, ma per abitudine. Per cecità.
Ho visto una donna rom con febbre a 39, incinta, rimandata al consultorio perché “qui non possiamo farci niente”. Ma bastava un’ecografia e una flebo. Non era difficile. Solo che nessuno voleva prendersi la briga.
Ho assistito a un uomo magrebino con dolore toracico trattato con indifferenza, come se stesse recitando. Nessuno lo ascoltava. È stato il medico più giovane, quello in tirocinio, a insistere per l’ECG. Infarto in corso.
Queste cose non fanno notizia. Non finiscono nei giornali. Nessuno le denuncia. Perché sono troppo normali per sembrare gravi. Ma sono le fondamenta della discriminazione quotidiana.
E c’è anche un altro razzismo, più sottile: quello che si manifesta tra pazienti. “Io non voglio stare nella stessa stanza con quello lì”, “chiamate prima me, mica quell’extracomunitario”. E lo staff? Spesso non risponde. O peggio: acconsente, per “tranquillità”.
Si cede al ricatto del razzista. Per non avere problemi. Ma così si crea un altro problema, più grande.
Perché il pronto soccorso dovrebbe essere il luogo in cui ogni corpo ha lo stesso valore, indipendentemente da dove viene, da cosa crede, da che lingua parla.
Invece a volte i muri non sono fatti di mattoni, ma di preconcetti. E tra un codice verde e un codice giallo, passa anche un codice culturale, non scritto ma applicato.
E io, come OSS, mi sono trovato spesso a fare da ponte. A tradurre, anche senza sapere la lingua. A spiegare, anche quando non mi toccava. Perché quando guardi negli occhi chi ha paura, il razzismo non è più teoria. È una barriera reale tra dolore e cura.
E non c’è protocollo che basti a cancellare ciò che le persone sentono quando vengono trattate come “diverse”. Non bastano i corsi di aggiornamento, le linee guida, le dichiarazioni ufficiali. Serve empatia. Serve attenzione vera. Serve la volontà di riconoscere ciò che si finge di non vedere.
Perché finché anche solo uno tra noi penserà che un paziente ha meno diritto alla cura solo perché parla male italiano, ha la pelle più scura, o ha un nome “strano”, allora avremo fallito.
E non basteranno le scuse. Non basteranno le statistiche. Non basterà dire che “la sanità è in crisi”.
Perché il razzismo in pronto soccorso non è un errore di sistema. È una scelta culturale. Ogni giorno.