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domenica, 22 Giugno,2025

Le donne uccise non sono numeri. Ecco cosa non ci raccontano i media

Donne uccise non sono numeri: ecco perché dobbiamo cambiare il racconto del femminicidio

Ogni volta che un nuovo femminicidio occupa due minuti in un telegiornale, la scena è sempre la stessa: un condominio ripreso da lontano, il portone chiuso, un mazzo di fiori per terra, e la voce del cronista che parla di “ennesima tragedia”. Poi, un servizio di trenta secondi, magari con qualche vicino che dice: “Sembravano una coppia tranquilla”. Fine. Pubblicità. Un altro programma. Un altro giorno.

Ma io non riesco a cambiare canale così in fretta.

Perché so che dietro ogni “caso” c’è una donna vera. Con un nome, una storia, delle paure tenute dentro per mesi. So che in quei trenta secondi di diretta non ci sarà mai il suono delle minacce, lo sguardo abbassato, le amiche che se ne erano accorte, ma non sapevano che fare. Non ci sarà mai la cronologia delle denunce archiviate, dei segnali ignorati, delle mani sul collo molto prima di quel coltello.

Quando i media dicono “ennesimo femminicidio”, lo dicono come se fosse un fenomeno atmosferico. Un fulmine che cade all’improvviso. Ma non è così. Ogni donna uccisa era stata già lasciata sola molte volte, prima ancora che arrivasse l’ultima volta.

Eppure, continuiamo a contarle. A fine anno, ci sarà il solito grafico: 80, 100, 120 donne. Una più, una meno. Alcuni giornali useranno il termine “emergenza”. Altri diranno che “servono più leggi”. Ma in fondo il racconto sarà sempre lo stesso: neutralizzante, disumanizzante, distaccato.

E se una donna viene uccisa da un compagno geloso, da un marito violento, da un ex che non accettava la fine, ecco che le parole diventano morbide. Si legge di “raptus”, “amore malato”, “troppa passione”. A volte si dice addirittura che “lui era depresso”, che “non accettava la separazione”. E lei? Lei è già nel passato. È l’oggetto della frase. È il corpo portato via. È il numero aggiornato.

Io penso che la colpa non sia solo degli assassini. Ma anche del modo in cui raccontiamo la morte delle donne. Delle narrazioni che assolvono, giustificano, attutiscono. Dei titoli che mettono l’uomo al centro. “Lui non sopportava l’abbandono”, “lui ha perso la testa”, “lui era ossessionato”. E lei? Lei è solo “la vittima”. Ma nessuno racconta com’era, chi era, cosa faceva, chi l’ha delusa prima che la uccidessero.

E allora mi chiedo: quante volte una donna deve chiedere aiuto prima che venga ascoltata? Quante denunce devono essere archiviate? Quante porte sbattute in faccia?

Perché dietro ogni donna uccisa ce ne sono molte altre vive per miracolo, che convivono ogni giorno con la paura. Che vivono in silenzio perché sanno già che lo Stato, spesso, arriva solo dopo la fine.

Mi fa rabbia leggere ogni volta la stessa struttura nei giornali online: prima il nome dell’uomo, poi quello della donna. Prima la sua professione, poi il fatto che lei aveva lasciato casa. Come se fosse lei ad aver fatto qualcosa di sbagliato. Come se lasciare un uomo pericoloso non fosse un atto di coraggio, ma una provocazione.

Non c’è mai spazio per raccontare chi era davvero quella donna. Che musica ascoltava, se aveva sogni nel cassetto, cosa aveva superato per arrivare fin lì. Tutto viene spazzato via con una frase: “uccisa per gelosia”. Come se fosse comprensibile. Come se bastasse.

E invece no. Non basta.

Ci sono donne uccise davanti ai figli, e figli che diventano orfani di madre e padre nello stesso giorno. Ci sono donne che avevano denunciato più volte, ma che nessuno ha protetto. Ci sono donne che avevano cambiato città, numero di telefono, abitudini. Ma lui le ha trovate lo stesso.

E mentre le storie passano, noi impariamo a dimenticare. I nomi si sommano, si confondono. Le foto sbiadiscono nel feed dei social. Restano solo i numeri. “Donne uccise in Italia nel 2024: 98”. E tra una notizia di calcio e una di gossip, scorriamo via anche quella.

La verità è che le donne uccise non sono numeri. Sono una denuncia dell’indifferenza, della cultura patriarcale, della retorica della colpa. Sono la prova che qualcosa, profondamente, non funziona nel modo in cui educhiamo, proteggiamo, raccontiamo.

E i media hanno una responsabilità enorme. Perché il modo in cui si racconta un femminicidio non è neutro. Può educare o può assolvere. Può umanizzare o può rendere statistiche. Può dire la verità o può deformarla.

C’è un libro che ho letto recentemente, “Per un’ora d’amore” di Piergiorgio Pulixi, che riesce a raccontare questo orrore con potenza narrativa, senza mai cadere nella morbosità. Ne ho parlato qui, in una recensione personale su Antirazzismo.com, perché credo che anche la letteratura, quando è fatta bene, possa aiutarci a capire davvero cosa accade quando l’amore si trasforma in possesso, e il possesso in violenza.

Ma la realtà è ancora più spietata.

Ci sono donne uccise a colpi di martello, di coltello, di pistola. Donne bruciate vive. Donne fatte sparire. Donne lasciate sul ciglio di una strada. E ogni volta, in fondo, troviamo chi dice: “non era un mostro”. Come se il male avesse bisogno di sembrare tale per essere riconosciuto.

Eppure, lo sappiamo che il male ha spesso una faccia qualunque. Che non urla, non spaventa, non fa paura finché non è troppo tardi. Lo sappiamo, ma non lo vogliamo vedere.

E allora forse è il caso di iniziare a fare qualcosa di più che indignarci. Di più che scrivere “vergogna” sotto un post. Di più che condividere una foto con un fiocco rosso.

Forse è il momento di smettere di parlare di “emergenze” e iniziare a parlare di cultura. Di formazione. Di educazione emotiva. Di consapevolezza. Di rispetto.

Perché i numeri servono, certo. Ma non bastano. Perché dietro ogni numero c’è un volto. Un nome. Una voce che nessuno ha voluto ascoltare.

E noi, adesso, possiamo scegliere. Possiamo continuare a contare. Oppure possiamo iniziare a raccontare. Raccontare davvero. Con rispetto. Con verità. Con dignità.

Perché se una donna viene uccisa e nessuno la ricorda per ciò che era, allora viene uccisa due volte.

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