Media e razzismo: rappresentazioni che costruiscono il pregiudizio
Media e razzismo sono strettamente legati: i media non si limitano a raccontare la realtà, ma la costruiscono, la filtrano e la distorcono. Ogni scelta – dal titolo di un giornale alla fotografia usata in un servizio televisivo – incide profondamente sulla percezione pubblica dei fenomeni sociali. Quando si parla di razzismo, il ruolo dei media diventa ancora più delicato. Le rappresentazioni che offrono di determinati gruppi etnici possono rafforzare stereotipi, alimentare diffidenza, giustificare discriminazioni. Oppure, al contrario, possono contribuire a scardinarli, aprendo lo sguardo alla complessità, alla verità, all’umanità.
Uno dei meccanismi più potenti con cui i media influenzano il razzismo è attraverso il linguaggio. Non è solo questione di parole offensive o apertamente razziste, ma di termini ambigui, reiterati, sottili. Basti pensare a quanto spesso si usa la parola “clandestino” per riferirsi a chi migra, mentre non si parla mai di “clandestini” tedeschi o americani. La cronaca, soprattutto quella nera, tende a enfatizzare l’origine etnica o nazionale di chi commette un reato solo se si tratta di persone straniere o non bianche. “Rapina a mano armata: arrestato marocchino”, “Stupro: denunciato un nigeriano”. L’identità etnica diventa una notizia nella notizia. Quando invece il colpevole è italiano, la nazionalità raramente viene indicata.
Un altro esempio ricorrente è la differenza di tono tra le notizie. Quando una persona straniera è vittima di un crimine, spesso si parla di “lite tra extracomunitari”, di “regolamento di conti”, riducendo la gravità dell’accaduto. Se invece la vittima è italiana e l’aggressore è straniero, il tono cambia: “Paura in centro: immigrato aggredisce passante”. È lo stesso schema che si ritrova nei casi di cronaca che riguardano i Rom, sempre rappresentati come gruppo indistinto, criminale, pericoloso. Poche volte si racconta la loro vita reale, fatta di povertà, di esclusione, di cittadini italiani a tutti gli effetti.
I telegiornali e talk show hanno un impatto enorme nella costruzione dell’immaginario collettivo. Basti pensare a quante volte si vedono immagini di gommoni, barconi, volti affaticati, bambini in lacrime, sempre associate all’idea di “invasione”. Una parola che torna con frequenza allarmante nei titoli, nei sottopancia, nei commenti in studio. Nessuno si prende il tempo di spiegare che le cifre reali sono molto più contenute, che le rotte migratorie sono spesso conseguenza di guerre, disastri ambientali, sfruttamento economico. La rappresentazione dominante è quella dell’allarme, della minaccia, dell’emergenza. In questo modo si crea una narrativa che disumanizza.
C’è poi il tema della sottorappresentazione nei ruoli positivi. Quante persone nere, arabe o asiatiche vediamo nei film, nei telegiornali, nei programmi d’intrattenimento, in ruoli neutrali o professionali? Quasi nessuna. Le persone non bianche sono visibili solo quando sono criminali, vittime o comparse. Non sono quasi mai conduttrici, esperte, protagoniste. Questa assenza trasmette un messaggio implicito: non fanno parte del “noi”. Non sono cittadini come gli altri. Non sono affidabili, autorevoli, competenti. Questo incide profondamente sulla percezione sociale e alimenta discriminazioni invisibili ma radicate.
Un aspetto poco discusso è la mancanza di pluralità nei media italiani, anche a livello redazionale. Le redazioni sono ancora composte quasi esclusivamente da persone bianche italiane. Mancano giornalisti e giornaliste di origine africana, asiatica, sudamericana, rom, araba. Questo significa che il punto di vista dominante resta sempre lo stesso. Anche quando si parla di razzismo o migrazioni, a farlo sono spesso persone che non hanno mai vissuto quelle esperienze. Il risultato è una narrazione parziale, stereotipata, a volte inconsapevolmente razzista.
In alcuni casi, il razzismo mediatico diventa evidente anche nell’uso delle immagini. Foto segnaletiche quando si parla di stranieri, foto felici o “neutre” quando si tratta di italiani. Uso del plurale generalizzante (“gli africani”, “i romeni”) per indicare singoli individui. Taglio visivo che accentua tratti somatici, abbigliamento, espressioni. Le immagini non sono mai neutre. Raccontano, suggeriscono, orientano. E spesso lo fanno in modo distorto.
Secondo un’analisi dell’Associazione Carta di Roma, l’utilizzo scorretto del linguaggio nei media italiani contribuisce a rafforzare i pregiudizi razziali e le discriminazioni nei confronti delle minoranze.
Accanto ai media tradizionali, oggi ci sono i social media, che da un lato hanno amplificato il razzismo, ma dall’altro hanno aperto nuovi spazi per le contro-narrazioni. I commenti razzisti sotto i post sono ormai all’ordine del giorno. I gruppi su Facebook, Telegram o Twitter (X) che diffondono odio razziale si moltiplicano. Gli algoritmi dei social, poi, premiano spesso i contenuti più divisivi, più violenti, più carichi di emotività. Questo crea bolle comunicative in cui le persone ricevono solo conferme ai loro pregiudizi, rafforzando stereotipi e paure.
Ma i social sono anche uno strumento potentissimo per chi combatte il razzismo. Sempre più attivisti, giornalisti, educatori e influencer usano Instagram, TikTok e X per decostruire le narrazioni tossiche. Ci sono account che smontano fake news, spiegano come funziona il razzismo strutturale, denunciano la discriminazione nei media. Questo tipo di comunicazione è spesso diretto, creativo, accessibile, e raggiunge un pubblico giovane che raramente legge i giornali o guarda la TV. È una forma di resistenza culturale.
Un esempio chiaro è il modo in cui la stampa italiana ha trattato il tema dei femminicidi e delle violenze di genere in relazione alle donne migranti. Spesso, se la vittima è straniera, la notizia ha meno visibilità. Se l’aggressore è straniero, si sottolinea la cultura “arretrata”, “violenta”, “patriarcale”. Ma quando il colpevole è italiano, si parla di gelosia, di raptus, di follia improvvisa. Due pesi, due misure. Le donne migranti subiscono quindi una doppia distorsione: o sono silenziate, o sono utilizzate come strumento per rafforzare pregiudizi razziali. Questa dinamica è ben visibile anche nell’articolo già pubblicato su donne migranti e doppia discriminazione, dove viene analizzato come razzismo e sessismo si combinano nei media e nelle istituzioni.
Per contrastare tutto questo, è necessario ripensare a come si fa informazione. Serve un giornalismo più etico, consapevole, inclusivo. Serve formare i giornalisti sulla diversità, sull’intersezionalità, sulla responsabilità del linguaggio. Serve includere nei team editoriali persone con background diversi. Serve rivedere le linee guida sulle immagini, sui titoli, sulla rappresentazione delle minoranze. Alcune redazioni all’estero lo stanno già facendo, adottando codici deontologici specifici contro il razzismo.
Ma il cambiamento passa anche dalla scuola, dall’università, dall’educazione mediatica. Insegnare ai giovani a decifrare i media, a riconoscere le fake news, a interrogarsi su chi ha il potere di raccontare è fondamentale per creare una generazione più consapevole. È importante che le nuove generazioni capiscano che i media non sono specchi, ma costruttori di senso. E che possono – e devono – essere criticati, cambiati, reinventati.
Non si tratta solo di migliorare l’informazione. Si tratta di giustizia, di equità, di cittadinanza. Se una parte della popolazione viene costantemente raccontata in modo distorto o invisibile, non può sentirsi parte della comunità. Se le narrazioni dominanti escludono o stigmatizzano, alimentano discriminazione, paura, odio. Combattere il razzismo nei media è quindi una parte essenziale della lotta per una società più giusta.