Le donne migranti e il lavoro di cura: sfruttamento silenzioso
Le donne migranti in Italia rappresentano una presenza forte, costante eppure invisibile. Sono le mani che accudiscono, che puliscono, che raccolgono frutta e verdura nei campi, che si prendono cura dei nostri anziani e dei nostri figli, che vivono ai margini ma reggono una parte fondamentale del tessuto sociale. Eppure, quando si parla di immigrazione, il volto che compare nel dibattito pubblico è quasi sempre quello maschile. Quando si parla di violenza di genere, raramente si fa riferimento alle specificità delle donne migranti. C’è un doppio silenzio che le avvolge: quello del razzismo e quello del sessismo.
Nella narrazione istituzionale, le donne migranti sono spesso descritte in termini di vittime: vittime di tratta, di abusi, di matrimoni forzati, di religioni oppressive. Ma questa rappresentazione parziale e paternalistica cancella del tutto la complessità della loro condizione. Non sono solo vittime: sono anche soggetti attivi, lavoratrici, madri, attiviste, studentesse, persone che lottano per una vita migliore. Ma per poterlo fare, devono affrontare ostacoli doppi rispetto a molti altri gruppi sociali.
Uno dei problemi principali è l’accesso al lavoro. Le donne migranti sono spesso confinate in settori caratterizzati da precarietà estrema, come il lavoro domestico, la cura e l’assistenza, l’agricoltura. Questi ambiti sono spesso informali, privi di tutele contrattuali, esposti a ricatti, molestie, sfruttamento. Le lavoratrici migranti sono costrette a tollerare condizioni che nessun’altra categoria accetterebbe, perché ogni alternativa potrebbe significare la perdita del permesso di soggiorno, l’espulsione, il ritorno a una realtà da cui si erano faticosamente sottratte.
Molte donne, ad esempio, si trovano intrappolate in contratti di lavoro subordinati alla residenza o alla regolarità del permesso. In Italia, la legge sull’immigrazione lega spesso il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, un meccanismo che trasforma le lavoratrici straniere in persone completamente dipendenti dal datore. Se si perde il lavoro, si perde anche la possibilità di restare. Questo crea una condizione di vulnerabilità permanente, dove è facile subire abusi e molto difficile denunciarli.
Un altro nodo centrale è la violenza di genere, che assume forme particolarmente gravi e trasversali nelle vite delle donne migranti. Molte arrivano in Italia dopo aver subito violenze nel paese di origine o durante il percorso migratorio. Una volta qui, non sempre trovano protezione. I centri antiviolenza sono spesso impreparati ad accogliere donne che parlano lingue diverse, che hanno esperienze culturali diverse, che magari hanno timore di rivolgersi alle istituzioni. Anche nei casi di violenza domestica, il rischio è che la denuncia comporti la perdita del permesso di soggiorno se questo era legato al marito o compagno. Una situazione che lega le donne a relazioni pericolose, da cui non riescono a uscire.
La maternità è un’altra dimensione della discriminazione. Molte donne migranti diventano madri in Italia e affrontano un sistema sanitario che, pur teoricamente aperto a tutti, presenta barriere culturali, linguistiche ed economiche. Le donne senza documenti regolari temono di recarsi in ospedale. Le difficoltà nella comunicazione possono portare a incomprensioni gravi durante il parto. Mancano mediatori culturali, servizi di accompagnamento, attenzione alla specificità dei bisogni. Alcune si ritrovano completamente sole durante la gravidanza, senza rete familiare, senza sostegno sociale, con compagni spesso assenti o violenti.
Il razzismo si manifesta anche nel modo in cui queste donne vengono raccontate dai media. Le poche volte in cui compaiono è per rappresentare “emergenze”: madri disperate, prostitute da salvare, vittime da compatire o, peggio, simboli di una “invasione” da fermare. Mai come persone intere. Mai come cittadine. Mai come portatrici di competenze, progetti, diritti. Non si raccontano le storie di chi studia, lavora, costruisce reti, crea associazioni, lotta per i propri diritti. Eppure, sono tante le donne migranti che fanno tutto questo ogni giorno.
Un esempio emblematico riguarda il settore del lavoro di cura. Le cosiddette “badanti” – in gran parte donne provenienti da paesi dell’Est Europa, dal Sud America o dalle Filippine – sono una componente fondamentale del sistema italiano di welfare. Senza di loro, moltissime famiglie non saprebbero come prendersi cura di anziani e disabili. Eppure, queste lavoratrici vivono spesso senza contratto, senza ferie, senza malattia, con orari che superano le 12 ore giornaliere. La convivenza obbligatoria con la persona assistita, la mancanza di privacy, l’impossibilità di separare lavoro e vita personale: tutto contribuisce a creare situazioni di sfruttamento normalizzato.
Anche nel settore agricolo, dove molte donne migranti lavorano come braccianti, le condizioni sono spesso disumane. Turni massacranti, paghe da fame, alloggi fatiscenti, abusi sessuali. Il fenomeno del caporalato colpisce anche le donne, che però difficilmente denunciano per paura di perdere quel poco che hanno. Alcune vengono minacciate di essere denunciate alle autorità per la loro condizione irregolare. Altre vengono ricattate con la promessa di un contratto regolare che non arriverà mai. Sono vite di fatica e silenzio, che scorrono lontano dai riflettori.
Ma nonostante tutto, molte donne migranti si organizzano, resistono, parlano. In diverse città italiane esistono reti di supporto autogestite, collettivi di donne migranti che si aiutano a vicenda, che offrono consulenza legale, sostegno psicologico, corsi di lingua, spazi di incontro. Realtà come Casa delle Donne Lucha y Siesta a Roma, o il Collettivo Mujeres Libres, hanno dato voce a chi normalmente non ha voce. Anche le associazioni di donne nigeriane, filippine, marocchine, bangladesi contribuiscono a costruire comunità forti, consapevoli e attive.
La scuola è un altro luogo cruciale, sia come possibilità di integrazione sia come spazio dove si gioca la trasmissione del pregiudizio. I figli delle donne migranti spesso affrontano discriminazioni, bullismo, esclusione. E le madri, che magari parlano poco l’italiano o non conoscono il sistema scolastico, vengono marginalizzate nei processi decisionali. Il coinvolgimento delle famiglie migranti è spesso visto come un problema, mai come una risorsa. Eppure, l’educazione interculturale dovrebbe partire proprio dal riconoscimento della diversità come valore.
Anche il sistema giuridico contribuisce alla discriminazione. Le norme sull’immigrazione sono costruite in modo neutro solo in apparenza. In realtà, colpiscono più duramente proprio chi si trova all’intersezione di più vulnerabilità: essere donna, straniera, povera, madre sola. Le procedure di richiesta di asilo raramente considerano specificamente le violenze subite in quanto donne. I percorsi di regolarizzazione sono spesso lunghi, opachi, costosi. Le donne migranti devono fare i conti con una burocrazia ostile, con uffici che non offrono mediazione linguistica, con norme che cambiano continuamente.
L’intersezione tra razzismo e sessismo è evidente anche nella violenza istituzionale. Nei Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri), le donne vengono trattenute per mesi in condizioni degradanti, spesso senza sapere perché. Nei centri di accoglienza, le madri sole faticano a ottenere un alloggio dignitoso. E nel sistema sanitario, l’accesso alla prevenzione, alla ginecologia, alla salute mentale resta limitato per chi non parla bene italiano o non ha documenti.
Quello che manca è uno sguardo intersezionale, capace di vedere e nominare questa doppia discriminazione. I movimenti femministi, negli ultimi anni, hanno cominciato a includere la voce delle migranti, ma resta ancora molta strada da fare. Non si può parlare di parità di genere senza affrontare anche il razzismo. Non si può parlare di diritti delle donne se si escludono le donne migranti. E non si può costruire una società giusta se non si riconoscono tutte le forme di disuguaglianza, anche quelle che si intrecciano e si rafforzano.
La battaglia per i diritti delle donne migranti non è una battaglia “di nicchia”. È una questione centrale di democrazia, uguaglianza, diritti umani. È una questione che riguarda tutti, perché mette in discussione i meccanismi con cui la nostra società seleziona chi ha diritto a essere visibile, protetto, ascoltato. E solo affrontando questi meccanismi potremo costruire un’Italia veramente inclusiva.