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domenica, 22 Giugno,2025

Le discariche tossiche in Italia: un problema di giustizia ambientale e razzismo

Discariche tossiche in Italia: una ferita ambientale e sociale

Una strada secondaria attraversa un campo desolato alle porte di Napoli. Non c’è rumore, se non quello del vento che solleva polvere nera e bruciata. Ai lati, vecchi pneumatici, bidoni arrugginiti e sacchi gonfi di rifiuti tossici si ammassano come in un cimitero della modernità. È qui che i camion venivano a scaricare di notte, lontano dagli occhi, ma non dal respiro di chi vive a pochi metri. In quel paesaggio fatto di scorie e silenzi, ci sono famiglie che continuano a vivere, a cucinare, a far giocare i bambini. Nessun cartello, nessuna recinzione. Solo puzza, fumo e malattia. Questo non è un incubo, è la Terra dei Fuochi.

Molti pensano che le discariche tossiche siano un problema del passato, bonificato e risolto. Ma la verità è che in Italia il veleno è ancora vivo, nascosto sotto la superficie di interi quartieri, paesi, periferie. E ciò che colpisce di più è la mappa della distribuzione di queste aree inquinate, che sembra seguire un criterio preciso: quello dell’abbandono. Dove vivono le comunità più fragili, dove lo Stato è più assente, lì si concentra il maggior numero di siti contaminati. Le discariche illegali non sono ovunque: sono dove possono essere tollerate, dove le voci sono più deboli e le proteste meno ascoltate.

In questo senso, parlare di giustizia ambientale non è un vezzo da attivisti, ma un’urgenza civile. Le discariche tossiche non sono solo un problema ecologico, ma anche sociale, politico e razziale. Si tratta di un’espressione concreta di razzismo ambientale, cioè di quella dinamica per cui i danni ambientali ricadono in modo sproporzionato su chi è già emarginato. Il tema è stato affrontato anche nell’articolo già pubblicato su Antirazzismo.com, che invito a leggere per una visione d’insieme: Razzismo ambientale: come l’inquinamento colpisce in modo sproporzionato le minoranze etniche.

Pensiamo alla Campania. Secondo dati di Legambiente, nella sola provincia di Napoli sono censiti oltre 2.000 siti contaminati, molti dei quali mai bonificati. In alcuni comuni come Caivano, Acerra, Afragola, la mortalità per tumore supera la media nazionale. E chi vive lì? Persone con reddito basso, spesso immigrati, famiglie numerose, operai in cassa integrazione. Nessuno dei grandi quartieri borghesi è costruito sopra o vicino a queste bombe ecologiche. Nessun figlio di parlamentare gioca accanto a un terreno impregnato di diossina.

Eppure queste comunità resistono. In molti quartieri di Napoli Nord si sono formati comitati civici, guidati spesso da donne, madri che hanno perso un figlio, una sorella, un marito. Una di loro, Rosaria Capacchione, ex giornalista sotto scorta, ha raccontato la battaglia contro la camorra che controllava gli smaltimenti. Per anni, i clan hanno ricevuto rifiuti tossici da aziende del Nord Italia e li hanno seppelliti o incendiati in cambio di denaro. Tutti sapevano, ma pochi parlavano. Le istituzioni, nel migliore dei casi, voltavano lo sguardo.

Ma la Campania non è un caso isolato. Spostiamoci in Abruzzo, nella valle del fiume Tirino. Qui, nel piccolo comune di Bussi sul Tirino, si trova una delle più grandi discariche industriali d’Europa. Lì, per decenni, l’azienda chimica Montedison ha sversato tonnellate di rifiuti pericolosi nei terreni, fino a inquinare la falda acquifera. Anche qui, la popolazione ha saputo tardi, quando ormai il danno era fatto. Non è un caso che le case meno costose della zona si trovino proprio nelle vicinanze del sito contaminato.

A Taranto, la presenza dell’Ilva ha trasformato la città in un laboratorio della morte. Quartieri interi come Tamburi sono costantemente esposti a polveri sottili, metalli pesanti e diossine. Le scuole sono state chiuse più volte per emergenza sanitaria. Anche qui, a pagare il prezzo più alto sono le famiglie operaie, i migranti, le persone con minori possibilità di spostarsi o cambiare quartiere.

Lo schema si ripete. Che si tratti del Veneto industriale (Porto Marghera), del milanese (Basiglio, Rozzano), o della Sicilia orientale (Gela, Priolo), le discariche tossiche si insediano dove la vita vale meno agli occhi del potere. E quando le vittime non sono solo economicamente svantaggiate, ma anche etnicamente diverse, il quadro si complica: l’accesso all’informazione, alle cure, alla tutela legale diventa ancora più difficile.

L’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha pubblicato una mappa dei Siti di Interesse Nazionale (SIN): aree in cui l’inquinamento è talmente grave da richiedere l’intervento dello Stato per la bonifica. Ce ne sono 42 in tutta Italia, distribuiti in modo inquietante: si concentrano soprattutto al Sud e nelle aree industrializzate abbandonate. Nonostante gli annunci, molti di questi siti sono fermi da decenni. E nel frattempo le persone continuano a morire, ammalarsi, nascere con malformazioni.

Nel 2019, un’inchiesta di Greenpeace ha rivelato che in alcune aree del casertano i valori di arsenico e benzopirene superavano di 40 volte la soglia di sicurezza europea. E che gli inceneritori spesso bruciano anche materiali che non dovrebbero essere lì. La correlazione tra inquinamento e tumori è talmente evidente che diversi medici locali hanno iniziato a parlare apertamente di “genocidio ambientale”.

A Crotone, ex area industriale della chimica pesante, numerosi studi indicano tassi anomali di malattie respiratorie. A Brescia, nella zona di Via Milano, si registrano picchi di diossina nel terreno, con quartieri popolari confinanti con gli impianti. Anche a Roma est, aree come Collatina e La Rustica convivono da anni con roghi tossici e sversamenti abusivi. Ancora una volta, il filo conduttore è lo stesso: poveri, migranti, invisibili.

Ma l’ingiustizia non finisce nell’aria o nel suolo. Tocca anche l’anima. Chi vive accanto a una discarica tossica è più soggetto a depressione, ansia, disturbi del sonno, sensazione di abbandono, rassegnazione. I bambini crescono con la percezione che il loro quartiere valga meno, che la loro salute conti meno. Che loro, in fondo, contino meno.

Anche l’urbanistica ha la sua parte. Molti quartieri popolari italiani sono nati in aree industriali dismesse, spesso senza bonifica. Le periferie diventano “zone cuscinetto” dove scaricare problemi, rumori, veleni. Lo stesso succede nei piccoli paesi dimenticati, lontani dagli investimenti e dai media. La geografia dell’inquinamento ricalca quella del potere: più sei povero, più sei sacrificabile. Più sei invisibile, più puoi essere contaminato.

Ecco perché parlare di discariche tossiche in Italia è anche parlare di razzismo sistemico. Non quello urlato, ma quello pianificato. Quello che lascia in silenzio una comunità rom accanto a una discarica abusiva. Quello che ignora i migranti che vivono nei container a ridosso degli inceneritori. Quello che costruisce quartieri ghetto senza pensare alla qualità dell’aria, dell’acqua, del suolo.

Eppure, la speranza esiste. In tutta Italia ci sono movimenti dal basso, comitati, cittadini, associazioni che lottano per la giustizia ambientale. Gente comune che si fa portavoce di una battaglia che non dovrebbe nemmeno esistere. A Giugliano, i comitati hanno ottenuto il sequestro di alcune discariche abusive. A Bussi, l’intervento della magistratura ha portato a processo i vertici aziendali. A Taranto, le mamme del quartiere Tamburi hanno alzato la voce con forza, costringendo i media nazionali ad ascoltare.

Sono battaglie faticose, che si scontrano con interessi economici enormi. Ma sono anche semi di un futuro diverso. Dove vivere in un luogo sano non sia un privilegio, ma un diritto. Dove la salute non dipenda dal tuo reddito o dal colore della tua pelle. Dove nessun bambino debba chiedere: “Perché qui l’aria fa male?”

Alla fine, si torna a quella strada ai margini della città, dove la polvere nera si alza come un sipario. Ma dietro, ci sono volti, storie, vite che meritano rispetto. E giustizia.

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