Il diritto alla casa esiste solo sulla carta
In Italia, il diritto alla casa è garantito dalla Costituzione. Ma nella pratica, trovare un alloggio dignitoso è spesso un’impresa impossibile per migliaia di persone. La discriminazione abitativa è una realtà diffusa, invisibile ai più, ma devastante per chi la subisce. Succede ai migranti, alle famiglie numerose, alle madri single, alle persone con disabilità, ai poveri, agli esclusi. Non c’è violenza fisica, non c’è sangue, non ci sono urla: c’è solo una porta che non si apre, un contratto che non si firma, una risposta che non arriva mai.
“Mi dispiace, l’appartamento è già stato affittato”
Amina è cittadina italiana, lavora come OSS in una RSA di Milano. Quando cerca casa, lo fa con puntualità, presentando buste paga e referenze. Ma appena dice il suo nome, o mostra la sua pelle scura durante una visita, l’atteggiamento cambia. “Guardi, le faremo sapere”, dicono. Ma non lo fanno mai. “Mi dispiace, l’appartamento è già stato dato.”
Il rifiuto non è esplicito. È passivo-aggressivo, sottile, ipocrita. È razzismo travestito da burocrazia.
Affittare è un privilegio, non un diritto
In molte città italiane, affittare un appartamento non è più solo questione di reddito. È questione di faccia, di cognome, di accento, di conformità a un modello sociale. “Cerco inquilini italiani, tranquilli, con contratto a tempo indeterminato, senza animali, senza figli.” Questa frase, comunissima nei gruppi Facebook e negli annunci su Subito o Idealista, è l’essenza della discriminazione abitativa.
Si crea un mercato immobiliare selettivo, inaccessibile a chiunque sia fuori dagli standard borghesi. Migranti, famiglie numerose, giovani precari, separati: tutti esclusi. E chi non ha alternative, finisce in subaffitto, sovraffollamento, dormitori, o direttamente in strada.
Il razzismo immobiliare ha molte forme
In alcune zone d’Italia, soprattutto nel Nord, è quasi impossibile per un cittadino straniero trovare una casa in affitto. Alcuni proprietari scrivono apertamente “no stranieri”, altri usano agenzie come filtro. “Preferiamo italiani”, dicono candidamente. È illegale? Sì. Ma chi controlla? Chi denuncia?
Una ricerca di UNAR e dell’Università di Milano ha mostrato che a parità di condizioni economiche, un nome arabo riceve il 35% in meno di risposte a un annuncio rispetto a un nome italiano. Se poi si aggiungono altri fattori — colore della pelle, religione percepita, numero di figli — il tasso di esclusione cresce ancora.
La povertà non è benvenuta
Anche chi è italiano, ma povero, è visto come un rischio. Se non hai un contratto di lavoro “standard”, se hai avuto problemi economici in passato, se sei disoccupato o precario, vieni automaticamente scartato. Le garanzie richieste per affittare un monolocale sfiorano l’assurdo: tre mesi di caparra, fideiussione bancaria, reddito triplo rispetto al canone.
Così, chi ha bisogno urgente di una casa viene tagliato fuori. E nessuno si preoccupa del fatto che il rifiuto dell’accesso all’abitazione è il primo passo verso l’emarginazione.
Il fallimento delle politiche pubbliche
L’edilizia residenziale pubblica in Italia è al collasso. Negli anni ’80, lo Stato costruiva migliaia di alloggi popolari. Oggi, sono le regioni a gestire (male) un patrimonio vecchio, degradato e insufficiente. Le liste d’attesa per una casa popolare superano i 10 anni in molte città. Gli assegnatari sono spesso discriminati a loro volta: vivono in palazzi fatiscenti, abbandonati, in periferie isolate.
L’abbandono delle case popolari ha creato ghetti urbani, luoghi stigmatizzati dove lo Stato è presente solo con i controlli, non con i servizi.
Lo stigma del “moroso”
Molte famiglie sono escluse dal mercato abitativo perché hanno avuto problemi di pagamento durante la pandemia. Sono i “morosi”, i cattivi pagatori, i rischiosi. Ma spesso si tratta di famiglie con figli che hanno perso il lavoro nel 2020, che hanno avuto aiuti statali insufficienti, che oggi lavorano ma portano dietro una segnalazione nella banca dati. Per loro, trovare casa è impossibile. Nessuno considera la loro storia. Nessuno ascolta.
Donne sole, madri escluse
Le donne separate con figli sono un altro bersaglio invisibile della discriminazione abitativa. “Mi dispiace, con i bambini non affittiamo. Fanno rumore.” “Chi le aiuta a pagare se perde il lavoro?” “Non abbiamo nulla per nuclei familiari monogenitoriali.” Dietro il linguaggio educato degli annunci immobiliari si cela un sistema misogino, classista, patriarcale.
Molte madri single si trovano a vivere in situazioni precarie, sfruttate da padroni di casa che approfittano della loro vulnerabilità. Subaffitti in nero, canoni esagerati, zero contratti.
Sfratti e sgomberi: la trappola senza uscita
Ogni anno in Italia vengono eseguiti circa 50.000 sfratti. La stragrande maggioranza per morosità. E nella metà dei casi, si tratta di famiglie con bambini. Gli sfrattati non hanno diritto automatico a una casa popolare. Devono presentare domande, fare file, attendere bandi.
Nel frattempo, dove vanno? Da amici, in macchina, nei dormitori. Alcuni finiscono occupanti abusivi, e vengono poi sgomberati senza preavviso. È un circuito perfetto di discriminazione abitativa istituzionalizzata.
Le città che escludono
Le politiche urbanistiche delle grandi città italiane stanno costruendo spazi pubblici sempre più esclusivi. Interi quartieri vengono “riqualificati” per attrarre turismo e investimenti, ma le classi popolari vengono espulse. Gli affitti salgono, le case vengono affittate a breve termine, i residenti storici vengono “spinti fuori”.
Questo fenomeno, chiamato gentrificazione, è una delle nuove forme di discriminazione abitativa. Milano, Roma, Firenze, Bologna: ovunque il centro storico diventa vetrina per chi può permetterselo, mentre la periferia raccoglie ciò che resta.
La questione rom
I cittadini rom sono tra le categorie più colpite dalla discriminazione abitativa. In molte città italiane vivono da decenni in campi irregolari, senza acqua, luce, servizi. Ogni tentativo di inserirli in alloggi regolari incontra l’ostilità di vicini, comitati, amministratori.
Anche quando lavorano, pagano le tasse, parlano italiano, non riescono a uscire dal ghetto. La casa, per loro, è un sogno negato. E le politiche pubbliche spesso preferiscono tenerli nei campi “controllati” piuttosto che offrire soluzioni dignitose.
Il silenzio delle istituzioni
La discriminazione abitativa non è mai nominata nei discorsi ufficiali. Nessun partito ne parla. Nessun piano nazionale la affronta. Eppure, colpisce milioni di persone, in modo subdolo e persistente. È una violenza che non lascia lividi ma frattura la vita delle persone.
L’Italia ha firmato trattati internazionali sul diritto alla casa. Ma continua a violarlo ogni giorno, senza vergogna.
Le buone pratiche esistono
Nonostante tutto, ci sono realtà che resistono. In molte città operano associazioni, reti solidali, parrocchie, centri sociali che offrono soluzioni alternative. Progetti di cohousing, alloggi temporanei autogestiti, mutualismo abitativo.
A Napoli, il progetto “Magnammece o pesone” ha ristrutturato case abbandonate per ospitare famiglie sfrattate. A Torino, il collettivo “Prendocasa” ha occupato legalmente interi stabili, trasformandoli in spazi di vita collettiva. A Roma, la rete “Nonna Roma” offre supporto abitativo e legale.
Immaginare un’altra città
È possibile costruire una città che non escluda. Ma servono politiche radicali: più edilizia pubblica, affitti calmierati, blocco degli sfratti, redistribuzione degli alloggi sfitti. Serve il coraggio di affrontare il privilegio immobiliare e le logiche di speculazione.
Serve soprattutto una rivoluzione culturale: riconoscere la casa come diritto, non come premio.