Pregiudizi su lingua e accento: quando il parlato diventa un ostacolo
Ci sono discriminazioni che si vedono e altre che si sentono. Il colore della pelle può attirare sguardi diffidenti, ma è spesso la voce, la lingua, l’accento, a innescare reazioni immediate, giudizi impliciti e, troppo spesso, forme di esclusione sociale. Parlare in un certo modo può aprire porte o chiuderle in faccia. In Italia, come in molte altre società, lingua e accento non sono semplici strumenti di comunicazione: sono marcatori identitari che il sistema interpreta, valuta e usa per decidere chi sei, da dove vieni e quanto vali.
Un italiano parlato con accento straniero viene spesso recepito come “inferiore”, “meno intelligente”, “meno educato”. Non importa che la persona sia laureata, competente, perfettamente integrata: l’inflessione è sufficiente a collocarla in una categoria sociale più bassa. Allo stesso modo, un accento del sud Italia può essere oggetto di scherno o portare, in contesti settentrionali o elitari, a una svalutazione culturale. In entrambi i casi, il modo di parlare si trasforma in un codice di esclusione, un segnale che autorizza – secondo pregiudizi mai sradicati – la marginalizzazione.
Il razzismo linguistico si manifesta in tanti modi. Talvolta è palese, come quando si ride dell’accento di qualcuno o lo si imita per deriderlo. Altre volte è più subdolo: si cambia tono, si semplificano le parole con tono paternalistico, si finge di non comprendere, si corregge continuamente chi parla. In certi ambienti, basta che una persona abbia un’inflessione “non standard” per essere considerata meno affidabile. Questo vale per chi parla con un italiano marcato da una lingua madre straniera, ma anche per chi usa dialetti, lingue minoritarie o accenti regionali forti.
Nel contesto italiano, il fenomeno è aggravato da un modello culturale che continua a privilegiare l’italiano standard settentrionale, considerandolo “neutro”, “corretto”, “educato”. Qualunque deviazione da questa norma viene spesso percepita come “mancanza”, come “errore”, come prova di una mancanza di cultura o di integrazione. Ciò accade anche nei media, dove il parlato televisivo è quasi sempre “pulito”, “addomesticato”, e raramente riflette la vera pluralità linguistica e fonetica della popolazione.
Questo tipo di discriminazione ha effetti molto concreti. Nella scuola, ad esempio, i bambini figli di migranti vengono spesso etichettati come “in difficoltà” solo perché parlano un italiano con accento diverso. Le difficoltà linguistiche sono viste come limiti cognitivi, senza che si riconosca il valore del bilinguismo o il potenziale di una competenza interculturale. Nelle valutazioni scolastiche, l’accento può inconsapevolmente influenzare il giudizio dell’insegnante. Così si alimentano percorsi educativi disuguali fin dai primi anni.
Nel mondo del lavoro, lingua e accento incidono sulla possibilità di essere assunti, di fare carriera, di essere presi sul serio. In molti call center, ad esempio, vengono selezionate solo voci “bianche”, “neutre”, “italianissime”, per non turbare i clienti. L’accento straniero viene considerato un problema, un ostacolo alla “professionalità”. Anche nei colloqui di selezione, chi ha un accento marcato può ricevere meno opportunità, anche se ha un curriculum impeccabile. Questo è discriminazione a tutti gli effetti, ma raramente viene riconosciuta o denunciata.
Ci sono poi le interazioni quotidiane: al bar, in farmacia, agli sportelli pubblici. Persone con accento straniero o non “standard” vengono interrotte, ignorate, trattate con condiscendenza o diffidenza. Spesso sono costrette a ripetere più volte le stesse cose, come se il contenuto delle loro parole fosse irrilevante rispetto alla forma. Non c’è solo un giudizio linguistico, ma una vera e propria gerarchia umana basata sul suono della voce. È come se la lingua diventasse una prova di cittadinanza: se parli “bene”, forse sei accettabile. Se parli “male”, sei sempre uno straniero, anche se sei nato qui.
Questo fenomeno non è nuovo, ma è spesso ignorato nel dibattito pubblico. Il fatto che una persona con accento del sud possa essere derisa in una riunione aziendale milanese è accettato come “umorismo”. Che una persona nera cresciuta in Italia venga continuamente elogiata con frasi come “parli benissimo italiano!” rivela un pregiudizio radicato: si presume che non dovrebbe saperlo parlare. Anche chi ha la cittadinanza italiana viene trattato come “altro” sulla base della voce.
C’è poi il caso dei media. In televisione e alla radio, chi ha un accento straniero è spesso ridotto a caricatura o relegato a ruoli marginali. I conduttori, i giornalisti, gli esperti hanno quasi tutti lo stesso tono, lo stesso registro, la stessa fonetica. È come se ci fosse un “italiano giusto” e tutto il resto fosse un’eccezione. Ma la lingua è un fenomeno vivo, complesso, dinamico. Pretendere uniformità è una forma di controllo culturale. Escludere chi parla diversamente è una forma di violenza simbolica.
Anche nella pubblicità il problema è evidente. Le voci delle pubblicità radiofoniche o televisive sono selezionate con cura per essere “credibili”, “rassicuranti”. Ma cosa significa rassicurante? In molti casi, significa semplicemente: bianca, settentrionale, senza inflessioni. Così, giorno dopo giorno, ci viene detto quale voce è “affidabile” e quale no. La conseguenza è che chi non ha quella voce viene considerato meno degno di fiducia.
La questione si intreccia con il concetto di “italianità”. Chi parla con accento straniero è spesso trattato come “non italiano”, anche se ha passaporto italiano e ha vissuto tutta la vita nel nostro Paese. C’è una confusione tra lingua e identità: si presume che per essere italiano si debba parlare “come gli italiani veri”, cioè come chi ha voce bianca, standard, educata. Questo esclude migliaia di persone dalla piena cittadinanza simbolica.
Anche gli accenti regionali sono vittime di questa logica. L’accento napoletano, palermitano o calabrese può essere oggetto di scherno o giudizio, soprattutto nei contesti professionali settentrionali. Al contrario, l’accento milanese o torinese viene considerato “normale”, “colto”. È una forma di razzismo interno, di gerarchizzazione fonetica che riflette le disuguaglianze storiche tra nord e sud.
Esistono poi effetti indiretti. Chi è continuamente corretto o ridicolizzato per il proprio modo di parlare può sviluppare insicurezza, ansia sociale, rifiuto della propria lingua madre o dialetto. Molti bambini figli di migranti rifiutano la lingua dei genitori per cercare accettazione. Altri si sentono in colpa per il proprio modo di parlare, come se fosse sbagliato. Il risultato è un trauma linguistico che può durare anni, e che pesa sull’autostima e sull’integrazione.
Eppure, la diversità linguistica è una ricchezza. Ogni accento, ogni inflessione, ogni modo di pronunciare le parole racconta una storia, un percorso, una cultura. Invece di omologare, dovremmo valorizzare. Invece di correggere, dovremmo ascoltare. Invece di ridicolizzare, dovremmo riconoscere la bellezza della pluralità.
Contrastare la discriminazione fondata su lingua e accento significa cambiare prospettiva. Significa educare all’ascolto, insegnare che parlare “diverso” non vuol dire parlare “male”. Significa smettere di misurare le persone in base alla voce. Significa riconsiderare cosa intendiamo per competenza, cultura, professionalità.
Anche il linguaggio amministrativo deve cambiare. Nei documenti pubblici, nei moduli, nei siti delle istituzioni, l’accessibilità linguistica è ancora una barriera. Spesso si presume che tutti capiscano il linguaggio burocratico, ma chi ha un background linguistico diverso può trovarsi escluso. Una pubblica amministrazione inclusiva dovrebbe garantire traduzioni, semplificazioni, mediazione linguistica. Non è un favore, è un diritto.
Infine, serve un cambiamento nei media e nella cultura popolare. Più voci autentiche, più accenti diversi, più storie raccontate da chi ha vissuto sulla propria pelle la discriminazione linguistica. Serve una rivoluzione fonetica che restituisca dignità e valore a tutte le voci. Serve fare spazio, ascoltare, rispettare. Perché la lingua non è solo un mezzo per comunicare: è un territorio da difendere, un’identità da riconoscere, un diritto da garantire.