Le etichette sono come delle macchie indelebili e visibili a tutte e tutti, ecco la ragione per cui molte persone dicono di non volerne addosso, ma tra etichette e definizioni ci sono molte differenze.
La definizione di un preciso gusto sessuale oppure di una tendenza caratteriale, non necessariamente può e deve diventare un etichetta, abbiamo anticipato l’apertura di questo articolo sostenendo che ci sono delle sostanziali differenze tra definizione e etichette, e quindi parleremo di entrambe e anche del linguaggio che contribuisce a creare forme discriminatorie verso le persone.
Le Etichette
Le etichette sono quel tipo di definizione di una persona o di un gruppo sociale, che tendono a diminuire e oltraggiare il significante delle delle definizioni, quindi nascono con un obiettivo preciso quello di essere una forma verbale e di categorizzazione discriminatoria.
Le etichette costituiscono anche la base su cui fioriscono gli stereotipi.
Un esempio di questa frase sopra riportata: Sei vegano, ambientalista e radical chic.
Una frase di questo tipo è discriminatoria perché associa il veganesimo e l’ambientalismo all’essere un borghese. Magari invece la persona vegana e rispettosa dell’ambiente che la circonda è principalmente rispettosa di se stessa e amandosi sceglie uno stile di vita sano che intacchi il meno possibile anche l’ambiente esterno e lo fa pur essendo di quella classe sociale alla quale viene associata. Quindi l’etichetta è palesemente – in questo quadro – una forma di discriminazione come possono esserlo altre che si collocano in frasi ben precise.
Cosa significa creare degli stereotipi?
Dal sito dell’Isfol dove fanno luce proprio sul tema del linguaggio toccando la tematica dello stereotipo:
Dallo stereotipo come strumento di previsione e controllo della realtà si giunge allo stereotipo come distorsione della conoscenza e ostacolo all’interazione, quando si esasperano gli aspetti della generalizzazione (caratteristiche del gruppo applicate ai singoli) e della rigidità (caratteristiche coerenti, organiche e stabili). Gli stereotipi negativi costituiscono il nucleo cognitivo del pregiudizio, ovvero un atteggiamento ingiustificatamente sfavorevole verso le persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale, che è all’origine di comportamenti discriminatori.
In questo caso si parla giustamente di gruppi sociali e di forme di rigidità nel giudizio, e sono esattamente queste a crearsi quando si parla di etichette discriminatorie applicate alle persone.
Sulle etichette l’Isfol dice:
Le etichette e le etichettature denigratorie tendono a disumanizzare e spersonalizzare l’individuo e l’intero gruppo, anteponendo una caratteristica alle altre e oscurando l’esistenza delle persone e delle loro storie. Le persone che etichettano, in maniera giusta o sbagliata, gli altri hanno più difficoltà a cambiare idea, anche sperimentando il contrario. Alcuni esempi di etichettature diffuse nel linguaggio della politica, giornalismo e società civile: “gli extracomunitari”, “le badanti”, “i disabili”, “i gay”, “i nomadi”, “i vu’ cumpra’”.
Non è bello anteporre una specifica caratteristica individuale a tutte le altre, le persone non sono oggetti e quindi non possono essere etichettati. Il carattere prevalente di questo approccio linguistico è proprio il voler essere discriminante e il voler creare una cultura della discriminazione.
Le Definizioni
Al contrario delle etichette, le definizioni come:
– Ambientalista
– Antispecista
– Vegano
– Gay
– Bisessuale
– Lesbica etc…
Sono solo un modo per poter identificare un aspetto – qualcosa di necessario alla lingua parlata – che fa parte dell’esistenza di una persona ma che certo non la completa come individuo perché – come dice anche l’analisi Isfol – le persone sono fatte di milioni di sfaccettature, atteggiamenti, pulsioni, desideri, caratteristiche, e definirle nella loro interezza richiede molte pagine bianche e non una sola parola (un etichetta per l’appunto).
Si comprende quindi che le definizioni non nascono con intenti discriminatori lo diventano al momento in cui su di essere si applicano degli stereotipi e quando questi tendono a sfociare nel pregiudizio, arrivati a quel punto non si parla più di definizioni ma di etichette per l’appunto.
Un etichetta non cambia una persona
Sembra scontata questa frase qui sopra, ma se si pensa agli scopi di chi etichetta le persone non è tanto assurdo ribadire il concetto che riportiamo a titolo di questo paragrafo. Uno degli scopi dell’etichetta, è creare un immagine fittizia – e falsa – della persona verso la quale sono rivolte le etichettature, quindi se la si sminuisce agli occhi degli altri, la persona che viene etichettata può apparire per come non è, e un unico suo aspetto può dominare sugli altri agli occhi di chi concepisce una definizione come assoluta scansando – irrimediabilmente – la complessità di un individuo che si compone – come abbiamo detto – di molteplici aspetti.
E cambiare quello che a questo punto è diventato uno stereotipo, generato dall’etichetta, sarà molto difficile. Esistono persone che anche se vedono che quel singolo aspetto della persona non è poi così rilevante o non influisce o magari anche influisce su una bella azione che questa porta avanti, comunque non riescono ad eliminare dalla testa lo stereotipo.
Si comprende quindi l’immagine che riportiamo e che pone appunto – in maniera decisa – la questione delle etichette e di come queste vengono impiegate sulle persone, anche se saranno molteplici come nell’immagine che mettiamo in evidenza, comunque non saranno sufficienti a definire la complessità di una persona e tutto quello che la caratterizza.
La discriminazione che deriva dalle classificazioni
Abbiamo visto che la persona vittima di una o più etichette può venir discriminata a causa di queste, ma può anche svalorizzare se stessa. Agendo anche come una violenza psicologica questa discriminazione può portare la persona a credere di sbagliare o a smettere di credere in uno specifico aspetto che fa parte di lei. Quindi anche questa è appunto un ennesima forma di discriminazione che ferisce ed umilia.