Bilal – Viaggiare, lavorare, morire da clandestini è un libro-inchiesta scritto da Fabrizio Gatti nel 2007. È la storia dello stesso giornalista, nei panni di un migrante (Bilal) in viaggio verso l’Europa. Dal Senegal sino all’Italia, passando per la Libia: i problemi sociali che va a toccare questo romanzo sono tanti, e la tratta d’esseri umani è soltanto il fil rouge di questa storia che vede i migranti costretti, in un modo o nell’altro, ad entrare in contatto con le mafie. Lo scrittore, mediante la sua opera, denuncia crimini importanti, attuati con il permesso di governi corrotti che, si direbbe, “stanno solo a guardare”.
Fabrizio Gatti è un giornalista d’attualità ma di vecchio stampo, di quelli che non aspettano il pacchetto di notizie preconfezionate sulla propria scrivania. Uno che non parafrasa ma che parla di ciò che ha effettivamente visto, e vissuto, in prima persona.
Il suo modus operandi è quello dell’osservazione partecipante, purtroppo è diventato atipico nel mondo del giornalismo (sempre più improntato alla velocità e alla quantità a discapito della qualità). Un mondo contro cui Fabrizio stesso si schiera, anche se soltanto a livello parodistico, mediante una sorta di favola intitolata: “L’eco della frottola”.
Le numerose false identità assunte nel corso degli anni (al fine dei realizzare i suoi reportage), gli hanno fruttato numerose denunce ma lui non s’è mai lasciato scoraggiare: piuttosto recente il suo reportage sul Cara Borgo Mezzanove di Foggia, un cento “d’accoglienza” per richiedenti d’asilo.
Nella sua vita Fabrizio Gatti ha dimostrato coraggio, e buone doti mimetiche: si è fatto rimpatriare sotto mentite spoglie d’un clandestino rumeno, Roman Ladu; ha lavorato come bracciante in un campo di pomodori in Puglia, fingendosi sudafricano; ha attraversato l’africa subsahariana e il deserto, insieme agli altri migranti, tramite mezzi di fortuna e carovane zeppe di cose e persone; è riuscito a farsi assumere come addetto alle pulizie in un ospedale milanese (il Niguarda), dove ha scoperto depositi d’amianto (anche di mer*a e di cadaveri, ma soparttutto d’amianto); non ha avuto paura nemmeno di raccontarci la storia, vera, di un mafioso pentito tolto “inspiegabilmente” e improvvisamente dal programma di protezione ad un mese dal processo in cui avrebbe dovuto testimoniare (“Gli anni della Peste”– Rizzoli)… infine in Sicilia, si è fatto arrestare e portare in un centro d’accoglienza temporaneo, utilizzando il nome Bilal.
Di critiche se ne possono fare a chiunque, e sicuramente qualcuno ne ha anche per questo autore, magari la stessa scrittura di Fabrizio Gatti ad alcuni non piacerà. Io, personalmente, a parte su certi giornali per cui scri(v)sse, nei suoi riguardi, di critiche non ne ho.
Bilal: Viaggiare Lavorare Morire da Clandestini (Fabrizio Gatti)
Il viaggio di Bilal comincia a Dakar e prosegue per il Mali, il Niger, (in carovane stracolme di persone o altri mezzi di fortuna ma che costano tanto), fino ad approdare in Libia: punto di partenza per le coste italiane. Là tutto è un’ incognita, e la possibilità di partire dipende, più o meno indirettamente, dalla volontà dei governi europei. Per darci un’idea di come funzionino le cose lì, l’autore riporta nel suo libro la corrispondenza elettronica tenuta con due amici bloccati in Libia.
Il giornalista ammette di non aver trovato la forza d’attraversare il mediterraneo, la sua inchiesta riprende direttamente dall’Italia. L’autore finge d’annegare nei pressi di Lampedusa, dove viene soccorso e salvato dalla gente del posto… per poi essere arrestato dalla polizia locale e venir rinchiuso in un centro di permanenza temporanea.
Saranno giorni terribili, forse, in assoluto, i peggiori momenti vissuti dall’autore nel corso di questa storia. Bilal è vittima di continue angherie, umiliazioni e pestaggi commessi dagli ufficiali. Fabrizio Gatti invece deve sopportare, e, nel contempo, essere cauto per risultare credibile nei panni di Bilal. Fingere di non comprendere l’italiano non è evidente, e l’autore ha spesso l’impressione che gli vengano tese delle trappole, e, più volte, corre seriamente il rischio d’essere scoperto.
Come ti chiami? Da dove vieni?”, vuol sapere un carabiniere. “I don’t understand”, sussurra Bilal, non capisco. La domanda viene rifatta in inglese maccheronico. “Kurdistan? Ma se questo è più bianco di me, come fa a essere curdo?”, chiede un carabiniere molto abbronzato. Bilal tiene gli occhi bassi sulle sue ciabatte logore e ascolta le voci. “Un curdo che parla inglese. Sarà. Non è che questo è un giornalista della Cnn infiltrato qui dentro?”. “Sì, o magari è un giornalista italiano?”. “Ma va’, gli italiani non fanno queste cose”, risponde la prima voce. Pericolo scampato. “Bilal, you must tell ze verity”, urla un carabiniere, devi dire ze verity. “Ze verity, understand? Se no bam bam”, e mima gli schiaffi. Verity? In inglese verità si dice truth. Sarà un errore o un tranello?
Un momento emblematico, e simpatico, che ben rappresenta lo sfinimento psicologico e fisico a cui sono sottoposte queste persone è la chiosa dell’avventura siciliana dove, una volta alleviata la tensione, si lascia andare anche lo scrittore.
A Porto Empedocle i 45 sono caricati su un’autobus della ditta Cuffaro scortato dalla polizia. La carovana sale fino alla questura di Agrigento. Bilal e gli altri 8 adulti vengono separati dai minorenni. I teenager sono destinati a un istituto in attesa di essere affidati ai parenti già in Italia. Gli altri ricevono tre fogli, un sacchetto con due panini e una bottiglia d’acqua. Poi vengono caricati su un furgone che parte a tutta velocità. “Bilal, ho paura. Secondo me ci portano in Libia”, dice Abdrazak, 18 anni marocchino, che vuole raggiungere lo zio a Catania. Invece si finisce alla stazione.
Ma il treno per Palermo è già partito: “Minchia, non parte mai in orario”, s’arrabbia un ispettore. Nuova corsa in auto, furgone e sirena fino ad Aragona, la stazione successiva. E questa volta il treno non è ancora arrivato. “Ragazzi ascoltatemi”, spiega un funzionario in inglese, “Avete cinque giorni di tempo per lasciare l’Italia. Siete liberi”. Anche Bilal è libero, nonostante il suo alter ego romeno e i precedenti penali. Gli altri quando capiscono, esultano. Uno si attacca al collo dell’ispettore che sorride, ma preferisce non essere baciato. Tutti, tranne uno, hanno un lavoro o un parente che li aspetta: a Milano, a Torino, a Napoli e Catania. L’ultimo ostacolo è un bigliettaio, la mattina dopo alla stazione di Palermo. È convinto che abbia davanti immigrati che non parlano italiano e li insulta. Maltratta anche un pendolare che si è offerto di aiutarli: “Lei che c’entra, crede che non li capisca?”. Bilal esplode: “Ma se nun capisti mancu l’italiano, lo fate o no ‘sta minchia di biglietto?“. Il bigliettaio sorpreso si mette subito al lavoro. “Che lingua era Bilal?”, chiede Abdrazak in francese, “era curdo?”.
La storia di Bilal prosegue in Puglia, dove viene assunto come bracciante in un campo di pomodori, e viene scoperchiato un nuovo mondo fatto di soprusi, morti, e lavoratori allo strenuo delle loro forze. Il racconto termina poi con il percorso compiuto a ritroso, dall’Europa verso l’Africa: sempre costipati su piccoli camioncini (malgrado il rimpatrio sarebbe dovuto avvenire in aereo).
Benché sia davvero una sorta di reportage giornalistico, e, come già ripetuto sino allo sfinimento, il giornalista abbia effettivamente vissuto tutte le vicende di cui narra, Bilal è pur sempre un romanzo. Non è vero, come potrebbe apparire ad un’occhiata superficiale, che vi sia un continuum temporale fra i vari macro- argomenti. In parole spicciole: Fabrizio Gatti, tra una falsa identità e l’altra, tra l’attraversata del deserto e il lavoro nei campi agricoli pugliesi, s’è preso qualche pausa, Bilal no. E nemmeno tutte le persone conosciute da Fabrizio Gatti nel corso delle sue indagini.
Si può dire che tramite questo libro, il giornalista sia riuscito a legare in un’unica storia inchieste diverse, legate dallo stesso argomento: la tratta degli esseri umani, venduti come schiavi sia prima di riuscire ad arrivare in Europa (da passanti, scafisti, e chi li comanda) che dopo, una volta appordati nel nostro continente (nei campi agricoli, nella prostituzione, nella droga o qualsiasi altro ramo in cui adopera la mafia).
Nonostante l’autore denunci fatti gravi, al limite della tolleranza umana, e gli eventi tragici siano all’ordine del capitolo, la vicenda nella sua interezza raramente risulta pesante. Merito d’una scrittura frizzante e scorrevole, ci si appassiona a Bilal quasi come ad una finzione letteraria, arrivando talvolta, a scordarsi gli assurdi retroscena.
È una storia che fa arrabbiare, che non può lasciare indifferenti, ma che allo stesso tempo riesce a far sorridere, e anche a far sognare… perché nonostante le atrocità descritte, allo scrittore non manca un pizzico di poesia nel descrivere incantevoli paesaggi africani, il deserto, la luna, il mare. E non gli manca nemmeno quando racconta le storie delle persone, di cui ci parla con grande sensibilità.