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lunedì, 19 Maggio,2025
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Attraversare il mare : riflessioni cambogiane

Da dieci giorni circa mi trovo in Cambogia; non posso dire d’aver fatto molto in questa settimana, e, anche se i piani son quelli di fermarsi qui tre mesi, probabilmente nemmeno alla fine di questo viaggio potrò dire di conoscere bene questa nazione.

A parte le difficoltà di comunicazione e le differenze culturali ( che sono inevitabilmente, e fortunatamente, tante) credo non basterebbe una vita per comprendere appieno un paese così diverso e sfaccettato come la Cambogia.

Attualmente mi trovo su un’isola chiamata Koh Rong Sanloem; il centro dell’isola è una meta ambita da molti turisti per via delle spiagge bianche e le baie tropicali dalle acque cristalline. Il Nord, dove mi trovo io, è una parte un po’ più sfigata: le spiagge bianche si raggiungono solo attraversando la Jungla, il sole tramonta dietro la baia lasciando gli spettacoli mozzafiato ai turisti… Forse per questo che i resort non l’hanno ancora invasa. Qua vi è anche un villaggio di pescatori (l’unico dell’isola), una piccola scuola, una clinica in costruzione, parecchia spazzatura e molto vento.

Raggiungere il capo di Koh rong Sanloem non è stato facile, il mare era mosso e a lungo le imbarcazioni non hanno nemmeno lasciato il porto. L’ultimo tratto di barca poi, quello che dalla baia centrale porta alla sommità Nord, è stato, per me (che sono prudente di natura), un po’ spaventoso.

Attraversare il mare

Attraversare il mare non è semplice nè poetico quando il mare  è mosso, la barca piccola e i bordi sono bassi. Non lo è nemmeno se sei un turista, sai che all’arrivo avrai un posto coperto dove andare a dormire ed indossi un giubbotto di salvataggio.

Mentre guardavo il nostro battello che continuava ad imbarcare acqua ed affrontare le onde, fra un conato e l’altro, mi son chiesta se fosse quella la sensazione che accompagna “i migranti dei barconi” mentre attraversano il mediterraneo su di una barca molto meno sicura della mia, con davanti un viaggio infinitamente più lungo, e senza avere idea di cosa li attenda all’arrivo.

Sono consapevole che la mia esperienza non sia minimamente paragonabile, che la mia paura era probabilmente un po’ immotivata e che, comunque sia, valga un decimo rispetto a quella di chi sta compiendo il così detto: “viaggio della speranza“.

Eppure non ho potuto fare a meno di pensarci, di arrabbiarmi di nuovo con chi non capisce la tragicità del dover mettersi un viaggio, di chi non comprende che quelle persone, al “barcone“, affidano la loro vita; o verso chi si permette di chiamare “taxi del mare” le navi delle ONG che pattugliano il Mediterraneo salvando coloro che, altrimenti, nel mare sarebbero morti.

Attraversare il mare non è semplice, il mare mosso fa paura anche quando si comincia ad intravedere l’altra costa e si è certi che non si annegherà.

Dunque, forse, per quanto le visioni politiche in merito all’accoglienza possano essere diverse, banalmente credo andrebbe mostrata un po’ più sensibilità quando si tocca quest’argomento. O almeno, non dimenticarsi che non è di numeri, ma di esseri umani (con sentimenti e paure), che si sta parlando.

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